Rosbeh Zakikhani: il segreto è uscire dalla propria zona di confort, ed essere pronti al cambiamento.

Intervista di Aurora Caporossi – LinkedIn

Le start up, attualmente, sono un nuovo modo di fare impresa, in che modo l’ecosistema (istituzioni, territorio..) può implementare la loro crescita e incentivare il loro sviluppo?

La Startup Innovativa, che per quanto riguarda la legislazione italiana è una forma di impresa relativamente nuova, in realtà è il modello di partecipazione e sviluppo di impresa del Venture Business, dedicato alla innovazione digitale, non è altro che la codificazione e applicazione di quello che facevano i grandi industriali ai tempi della rivoluzione medesima (si pensi ai casi più famosi come Tesla). Negli Stati Uniti, la rivoluzione digitale e poi quella di internet e poi quella mobile, hanno cambiato radicalmente l’economia del paese e di tutto il mondo. Ha visto ogni volta delle ere dell’oro e il successivo declino, creando modelli che poi sono stati imitati da tutto il mondo, personalizzati secondo il carattere e le pratiche paese, a volte con successo (la Cina ne è un esempio) a volte con scarsi risultati (se paragonati agli altri) e tanta confusione ed incertezza, nei termini e nelle pratiche.

Riconoscere lo status di Startup Innovativa da parte delle istituzioni è già stato un primo passo enorme, se parliamo dell’Italia, ma in realtà non basta. Sgravi fiscali, facilitazioni agli investimenti, alla ricerca e sviluppo (privata e universitaria), facilitazioni al rapporto tra grande impresa ed impresa innovativa, sono molte le azioni che potrebbero ed andrebbero fatte per incentivarne lo sviluppo.

Fortunatamente ci sono professionisti del settore capaci, anche in Italia, che stanno lavorando molto, da anni ed ogni giorno, con le istituzioni e con le aziende, per aiutare l’ecosistema esistente, allargarlo e portare risultati. Sfortunatamente sono ancora pochi e spesso sottovalutati.

L’Italia e l’italiano in media, probabilmente, non hanno il mindset o l’attidudine giusta, e come me la pensano in molti, anche se speriamo, almeno io lo speso, di sbagliarci e che sia solo un fatto di tempo prima che istituzioni, industrie e persone, abbraccino il cambiamento e non si lascino sfuggire la prossima opportunità (che è alle porte) e diventare anche noi competitivi a livello globale, come hanno fatto Spagna, Portogallo e molti altre ‘vecchie’ nazioni europee prima di noi.

 

Parliamo di professioni del futuro: quali professioni subiranno un notevole cambiamento rispetto al passato? Ci saranno, secondo te, delle professioni che dovremmo salutare?

Probabilmente la maggior parte di quelle che conosciamo. L’avanzamento tecnologico ormai è così veloce (non potrà che accelerare) che tra poco sarà pericoloso anche scegliere un percorso universitario troppo specializzato in un determinato settore o verso una determinata professione. Gli studi professionali potrebbero non essere più utili o sufficienti nel momento in cui si andrà a posizionarsi nel mondo del lavoro, figuriamoci se basteranno per tutta una vita intera, a parte gli studi prettamente scientifici.

Ma io, personalmente, ho smesso di cercare di guardare troppo avanti, o adirittura di leggere gartner report sulle professione che subiranno l’impatto della tecnologia nei prossimi 12/18 mesi, report che ormai non fanno che sbagliare.

Oggi, il visionario è anche un pragmatico imprenditore quando riesce a vedere come sarà il mondo tra 3-5 anni, non di più. Chi vi racconta di scenari a 10, 20, 50 anni da oggi, probabilmente, è un romanziere o un fuffarolo a cui dare poco credito, da non prendere in considerazione.

La formula più adatta al nostro momento storico, è proprio quella di uscire dalla propria zona di confort, essere pronto al cambiamento, anche più volte, nel corso della vita professionale e fare delle proprie unicità, dei propri valori univoci il vero punto di forza (conoscenza, esperienza, competenza), ma abbandonare tutto ciò che fa di questo un ‘mestiere’, come procedure e metodologie, ed essere pronti, in ogni momento, al cambiamento. Adattare la propria unicità al cambiamento.

 

Si dice che il 2019 sarà l’anno del 5G. Quali sono le tue considerazioni a riguardo? Tra vantaggi e svantaggi, se ce ne sono, che cosa ci dobbiamo aspettare?

Professionalmente la mia carriera ha preso il volo quando venne lanciato il 3G, l’UMTS, che cambiò completamente il paradigma di telefonia mobile. Quella fu una vera e propria rivoluzione e durò quasi dieci anni. LTE e ora 5G sono upgrade dello stesso concetto, avremo connessioni più veloci e potremo usare strumenti che prima erano relegati alle connessioni Wi-Fi. Se sapremo sfruttarle bene potrebbe essere, fin da subito, una piccola rivoluzione nelle nostre abitudini. molti strumenti (hardware e servizi), infatti, sono già pronti ad essere immessi sul mercato ed altri verranno sviluppati subito dopo. Automotive, Augmented Reality, Digital marketing, FinTech, Criptovalute, solo per citarne alcune, sono industrie che non potranno che beneficiare del 5G, se sarà adeguato al compito. Come al solito, però, meglio prima fare i conti con la realtà (leggasi Infrastutture), specialmente in Italia. Tutto bello, sulla carta.

 

Tra BLAST e Founder Institute: qual è l’idea che ha portato alla realizzazione di questi progetti? Se ti domandassero “ che cosa rappresentano?”, come risponderesti?

La conseguenza di un percorso. Lavorare tanti anni nell’innovazione tecnologica mi ha portato da tante parti ed in tante direzioni. Il Venture Business, a cui sono dedicati questi due progetti, è stata una di queste. La passione per l’innovazione è il LeitMotiv di tutte le mie professioni degli ultimi 15 anni, con queste due, portate avanti entrambe con la mia partner in crime, Alessia Gianaroli, che condivide la stessa passione professionale, abbiamo deciso di contribuire alla crescita dell’ecosistema, con delle imprese in cui, il successo del progetto, rappresentasse anche una piccola crescita dell’ecosistema intero. Entrambi i progetti, infatti nascono dalla individuazione, da parte nostra, di uno dei problemi dell’ecosistema italiano, il suo provincialismo e campanilismo. Blast prima e Founder Institute ora, sono per noi quindi un tentativo di creare dei ponti con il Venture Business internazionale, non solo nelle pratiche e stiamo lavorando ogni giorno per far si che non sia solo un “timido tentativo” ma porti dei risultati importanti.

 

Qual è, secondo te, il libro che non dovrebbe mai mancare tra le letture di un buon startupper?

Basta leggere “Distrupt Yourself” di Jay Samit, è ora di acquisire la mentalità giusta, non basta il metodo.

Il successo di una startup è principalmente dovuto alle capacità del/dei founder, l’imprenditore che l’avvia insomma, che deve avere: Attitudine, Metodo e Visione. L’attitudine non si legge e non si insegna purtroppo, o c’è o non c’è. Il metodo si impara e spesso non ne esiste uno giusto, bisogna applicare quello giusto per te. Ma la visione? Troppo spesso viene confusa con creatività o eccentricità o il carattere. Non è vero niente, il vero metodo, la vera secret source è tutto lì. Distruptive é un modo di guardare il mondo, di vedere i problemi e di trovare le soluzioni. Essere Distruptive spesso viene confuso con l’ambizione, secondo me, invece, è il modo corretto di vedere e usare la tecnologia, che deve essere dirompente, se si vuole fare Startup e credo sia necessario mettere il punto ‘anche’ su questo. Distruptive lo spiega molto bene, e, fortunatamente, è solo in inglese, non ne esiste una versione tradotta. Come dicevo prima, l’Italia ha veramente necessità di cambiare mindset e di avere il coraggio di essere “dirompente”.

 

I dati dell’Osservatorio del Politecnico di Milano inquadrano un mercato in forte crescita in materia di equity crowdfounding: 36 milioni di euro raccolti contro i quasi 12 del 2017. Aspettiamo con ansia i dati del 2019. In che modo l’equity crowdfounding si differenzia dal consueto crowdfouding? Secondo la sua opinione da cosa deriva questo gap di valori tra 2017 e 2018?

Ho seguito molto da vicino la questione e conosciuto alcuni dei protagonisti di questo cambiamento. Purtroppo, però, non leggo in questi dati come qualcosa di interessante e rilevante. Sono ancora cifre molto piccole che non cambiano la situazione dell’industria startup italiana, ne mi sembrano risolutive.

Lo strumento è assolutamente buono e necessario comunque, anche se, come succede in Olanda, ad esempio, sarebbe il caso di distinguere una quota per ogni azienda che possa essere raccolta da investitori non professionali, che non vada ad impattare nel conto delle quote raccolte dagli investitori tradizionali. Ad ogni modo, è un modo come un altro per aggirare i limiti di un srl di cui parlavamo prima e permettere a BA e piccoli investitori di partecipare più agilmente ad round di investimento in simil equity, senza le complicanza del metodo tradizionali. Trattandosi di piccoli investimenti e piccoli capitali, infatti, spesso il gioco non vale la fatica, quindi ben vengano in sistemi come il nostro, strumenti che facilitano l’accesso al capitale.

Chi è Rosbeh Zakikhani
Founder & Director di DeepHound Ltd, coDirector del Founder Institute Rome Chapter