di Veronica Vitale
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“Dobbiamo usare i dati per diventare più umani e connetterci con noi stessi e con gli altri a un livello più profondo”

Giorgia Lupi e Stefanie Posevec

I Big Data rappresentano, ormai, una caratteristica intrinseca della nostra società e il modo in cui ci relazioniamo ad essi è rapidamente e profondamente cambiato. Ci siamo abituati a vivere in una realtà ibrida, composta da una dimensione fisica e una informativa, in cui gli acquisti on line, le ricerche in internet e i social network alimentano database sempre più grandi le cui informazioni vengono usate per fare previsioni sui trend e trovare soluzioni nuove alle problematiche in continua evoluzione degli utenti.

Ma il fatto stesso di essere costantemente circondati dai data ci impedisce di cogliere il loro vero potenziale. Ossessionati dal voler ridurre la realtà a una serie di percentuali, grafici e statistiche, abbiamo perso l’umanità dei big data e dimenticato che essi sono soltanto uno strumento per rappresentare la realtà dietro cui ci sono persone con le loro storie.

Per non correre il rischio di raccogliere informazioni incapaci di comunicare un messaggio preciso e riuscire a estrarre il significato reale dei dati bisogna umanizzarli e interpretarli partendo dai comportamenti e contesti che li hanno generati.

Non semplici numeri, quindi, ma storie di persone e di esperienze, per leggere le quali non bisogna essere necessariamente degli esperti di statistica. A venire in aiuto di noi comuni mortali è, infatti, l’information design, disciplina che facilita la comprensione e trasforma l’informazione in conoscenza, rendendo un po’ più facile e molto più affascinante la lettura dei dati.

 

 

Proprio in questo campo lavorano Giorgia Lupi e Stefanie Posevec, due graphic designer che trasformano in bellissime infografiche grandi quantità di dati, sondaggi e analisi. Consapevoli del potenziale narrativo contenuto nei dati e volendo considerare questi ultimi da una prospettiva che li collegasse alle storie che rappresentano, hanno dato vita a Dear Data.

Nato per permettere alle due donne, che si sono incontrate di persona soltanto una volta, di conoscersi meglio e di applicare al loro lavoro qualcosa che avesse a che fare con le loro vite, il progetto ha consentito di sperimentare un nuovo approccio ai dati escludendo completamente la tecnologia.

Per un anno intero, Giorgia e Stefanie hanno esplorato diversi aspetti delle loro vite e raccolto dati che hanno poi trasformato in infografiche disegnate a mano, con cura e pazienza, sul fronte di una cartolina che si sono spedite rispettivamente ogni settimana, per 52 volte, attraverso l’Atlantico (Giorgia vive a New York mentre Stefanie a Londra). Una mole enorme di informazioni sintetizzate su un piccolo foglio bianco formato cartolina sul cui fronte sono riportate delle bellissime illustrazioni, ricche di colori e forme geometriche, e sul retro il tema della settimana e la leggenda per leggere i relativi dati, oltre ovviamente all’indirizzo del destinatario.

La sintesi di un anno di vita, indagata su un diverso tema ogni settimana (da quante volte controllano l’ora a quanti grazie dicono o ricevono, passando per la dipendenza dal proprio smartphone e dalle volte in cui si sono lamentate nel corso della giornata), che raccoglie non solo numeri ma anche pensieri, emozioni, risate, paure e abitudini.

Iniziato con la volontà di raccontarsi reciprocamente, il progetto ben presto si è trasformato in un diario giornaliero scritto con numeri e disegni al posto delle parole, che ha permesso ad entrambe le artiste di avviare una profonda ricerca su se stesse, di prestare attenzione alle piccole cose della vita e di conoscere meglio la personalità dell’altra e anche la propria.

Rallentare e raccogliere manualmente le informazioni, un’idea poetica ed estrema che, in un epoca dominata dalla tecnologia e dalla velocità, racchiude in ogni cartolina una celebrazione dell’analogico e della lentezza, del tempo e degli sforzi dedicati al destinatario e delle imperfezioni e dei refusi (provocati dal casa o dalle stesse autrici) come simbolo di unicità e autenticità.

Quello inaugurato da Lupi e Posavec rappresenta, oltre che un modo mai visto prima di conoscere se stesse, un nuovo approccio ai dati finalizzato a renderli più umani, cioè in grado di raccontare e spiegare cose sulle persone, che Lupi definisce un “umanesimo dei dati”. Tale orientamento è nato dal desiderio di mettere in discussione l’impersonalità di un approccio meramente tecnico ai dati e di iniziare a progettare modi per collegare i numeri a quello che realmente rappresentano: conoscenze, comportamenti e persone. Solo includendo l’empatia e uno studio profondo del contesto, abbracciando la complessità e accettando le imperfezioni potremmo utilizzare i Big Data non solo per diventare più efficienti, ma anche più umani.

Purtroppo non tutti abbiamo un amico di penna (a meno che non andiamo a ripescare l’indirizzo del nostro corrispondente estero ai tempi delle elementari), ma tutti possiamo imparare a prestare maggiore attenzione ai nostri comportamenti, abitudini ed emozioni. Diventeremo così più consapevoli di noi stessi e di ciò che ci circonda, oltre a scoprire che i numeri, anche se a volte possono trarci in inganno, in fondo ci vogliono bene e possono trasmettere emozioni.